Il Concilio sulla Liturgia

Ratzinger sulla Liturgia

Messe in Italia nella  forma straordinaria

 

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Confronto tra le due Messe

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LE RAGIONI DI UN NOME

 

L’espressione “Messa in latino” che dà nome a questo sito è del tutto imprecisa ed atecnica. Si può riferire sia al rito della Chiesa dal III-IV secolo (quando la divina liturgia originariamente in greco fu tradotta in latino) fino al 1969, sia all’attuale Messa “ordinaria” in vigore dal 1970, detta Novus Ordo, che in linea di principio può essere celebrata nel latino in cui il nuovo messale è stato originariamente emanato (diciamo bene in linea di principio poiché, onestamente, di celebrazioni in latino col nuovo rito non se ne vedono proprio: riteniamo che, eccettuando Roma, non raggiungano la decina in tutta Italia).

 

Tuttavia la dizione di messa in latino è la più diffusa nel linguaggio comune1 per denotare la Messa di una volta, ossia il rito secondo il Vetus Ordo (=vecchio ordine), anteriore alle riforme liturgiche del post-concilio, rito detto anche tridentino o di S. Pio V: altre due espressioni improprie, poiché papa S. Pio V emanò, è vero, un messale a seguito del Concilio di Trento, ma in realtà si limitò a fissare un rito già in uso a Roma da secoli. Esso risaliva, nei suoi elementi essenziali, almeno a mille anni prima (ossia a quindici secoli fa), precisamente al papa S. Gregorio Magno. Da quest’ultimo pontefice viene anche il nome, più corretto (e utilizzato dal Presidente della Commissione Ecclesia Dei), di rito gregoriano. Infine il motu proprio Summorum pontificum del 7.7.07 di Benedetto XVI, che ha liberalizzato l’uso dell’antica Messa, ha coniato l’espressione di “forma straordinaria del rito romano”; l’aggettivo straordinario applicato a questa Messa consente un evidente doppio senso che non può essere sfuggito al sottile sense of humour di questo Papa intellettuale: ci permetteremo quindi di abbreviare la dizione normativa in quella di “Messa straordinaria”, quale effettivamente è in rapporto a tante Messe moderne molto... ordinarie.

 

Ma tralasciamo queste sottigliezze terminologiche: se usiamo l’espressione corrente di “messa in latino” è essenzialmente per due ragioni. La prima, perché questo sito vuole rivolgersi anche alla persona semplicemente curiosa, ignara o quasi di dispute liturgiche e di finezze semantiche, che desideri comprendere perché i giornali non raramente parlino degli intenti  “reazionari” del Papa circa la messa in latino “preconciliare” e “con le spalle al popolo”. Qui troverà, ci auguriamo, alcune utili spiegazioni e un sunto del pensiero di Papa Ratzinger sulla liturgia.

 

La seconda ragione del nome di questo sito è che l’improprietà dell’espressione (che appunto a rigor di termini può riguardare tanto la Messa “straordinaria”, che è sempre in latino, quanto quella “ordinaria”, che può, o meglio potrebbe, essere in latino) denota altresì il nostro interesse non solo per il rito immemoriale di S. Pio V, ma anche per la riforma della riforma (l’espressione è del Papa) della “Messa ordinaria”. Secondo il Pontefice. è quanto mai necessaria la risacralizzazione del rito ordinario attraverso il recupero di elementi tradizionali, come la lingua sacra per alcune parti della Messa, la ricentralizzazione della Croce e l’orientamento del Sacerdote verso Dio, l’adorazione al momento della Comunione, il canto gregoriano (poiché più mistico e adatto alla preghiera) e soprattutto la soppressione di tanti abusi, banalità e sciatteria. In questi termini pure la Messa riformata rientra nel campo di attenzione di questo sito.

 

Non neghiamo la nostra netta preferenza per il rito antico e per ragioni non solo estetiche, ma perché esprime meglio – è la nostra convinta opinione – la pienezza della Fede cattolica. E rivendichiamo con decisione il diritto, anzi il dovere di ogni fedele di usare ragione e argomentato discernimento per vedere il buono e il bello (o il loro contrario) in ogni elemento liturgico, antico o nuovo che sia: se i nostri padri avessero fatto maggior uso di questo diritto-dovere, non avremmo avuto forse certe derive dagli anni Settanta in poi. Non intendiamo però denigrare o svilire il rito nuovo, già solo per il fatto che il Papa ci ingiunge di evitare ogni contrapposizione, che è ancor meno opportuna e tollerabile quando concerne la Santa Messa, fonte e il culmine della vita cristiana. Non solo: visto che la forma ordinaria è e resterà a lungo quella della stragrande maggioranza della Chiesa, è nostro dovere prendere interesse alla stessa e seguirne con amorosa apprensione e sollecitudine la necessaria riforma “sacralizzante”, poiché da quella dipenderà il futuro del cattolicesimo stesso, che non può certo ridursi alle isole fortunate (o, come qualcuno preferirebbe, alle riserve indiane) dei centri di Messa tradizionale. Questi ultimi, nel disegno del Papa, devono servire, per osmosi e confronto esemplare, ad iniettare elementi di trascendenza e sacralità nelle celebrazioni parrocchiali ordinarie, a beneficio dei più e non solo dei pochi.

 

Il Papa infatti incoraggia e promuove la diffusione della Messa millenaria non solo per un atto di giustizia verso gli avi, che ci hanno trasmesso questo tesoro sconsideratamente gettato alle ortiche, e verso i fedeli che ne traggono nutrimento spirituale, ma ancor più per riportare nel tessuto ecclesiale il paradigma, cioè l’esempio cui ispirarsi per celebrazioni riverenti, composte, caratterizzate da nobile semplicità, in cui il celebrante non colloquia incessantemente con l’assemblea, bensì guida e conduce il Popolo al cospetto del suo Dio, come il Gran Sacerdote davanti all’Arca dell’Alleanza. Ed è per rispondere a questo appello di Benedetto XVI che tutti dobbiamo impegnarci.

 

Ci sforzeremo quindi di seguire, e questo sarà il nostro programma, l’evoluzione liturgica (e non solo) della Chiesa che, sotto la lucida e paziente guida del Pontefice teologo, cerca di riappropriarsi della sua Tradizione, rigettando alfine quella schizofrenia ideologica che aveva visto nell’artefatto “Spirito del Concilio” (che si sostituì abusivamente all’esegesi di documenti conciliari ben più misurati) un momento di rottura, una palingenesi dal sapore luterano, un nuovo inizio che condannava senz’appello i secoli precedenti della Chiesa, in nome di un utopico e anacronistico ritorno ai tempi evangelici, ricostruiti peraltro artificiosamente secondo il gusto del momento (siamo intorno al Sessantotto), a discapito dell’azione dello Spirito Santo lungo il millenario svolgersi della storia della Chiesa.

 

Quante volte abbiamo dovuto sentire la solfa “prima del Concilio era... ora per fortuna invece...”. Di che rendere odioso quel Concilio brandito come un “superdogma “ (espressione ratzingeriana), utilizzato - nelle mani di un clero poco avvertito - quale arma ideologica contundente per divellere altari e balaustre, proibire processioni e pie devozioni, tacitare gli organi, banalizzare e render verbosa la celebrazione, erigere chiese in forma di autosilos, imporre canzonette indegne di qualsiasi orecchio, sloggiare il sacro tabernacolo e al suo posto installarvi il seggiolone del presbitero affetto da protagonismo e gigioneria. Ma per quanto sia moralmente comprensibile a fronte di questi eccessi, in realtà l’opposizione al Concilio sbaglia obbiettivo, perché la causa del male non è il Concilio in sé, bensì chi quel Concilio ha strumentalmente piegato a fini iconoclasti e rivoluzionari, che erano tutto il contrario di quel che i Padri conciliari volevano: per dirne una tra mille, i documenti conciliari riaffermarono la necessità che la lingua latina nelle celebrazioni fosse dappertutto conservata e incoraggiata, e si sa come è finita... 2

 

Papa Benedetto XVI, nel suo storico discorso del 22 dicembre 2005 alla Curia romana, ha finalmente fatto il punto, a quarant’anni dalla sua conclusione, su questo Concilio tanto invocato quanto di fatto tradito o, nel migliore dei casi, misconosciuto. Egli ha spiegato che di esso si sono date due interpretazioni confliggenti: la prima, denominata “ermeneutica della discontinuità e della rottura”, ha predominato in maniera assoluta finora, anche perché sostenuta dalla simpatia dei media solitamente laicisti, ed è quella che ha portato in via immediata e diretta alla gravissima crisi della Chiesa e all’apostasia di centinaia di milioni di ex cattolici (emorragia che è direttamente proporzionale all’accanimento modernista dei vari episcopati nazionali: per questo in Italia, dove grazie al cielo le posizioni sono state più misurate, la situazione è migliore che in Francia o Germania o, peggio del peggio, in Olanda, patria del famigerato Catechismo olandese chiaramente eterodosso, benché emanato dalla locale conferenza episcopale). L’altra posizione è “l’ermeneutica della riforma e della continuità”, che si rifiuta di vedere due Chiese diacroniche, quella di prima e quella di dopo il Concilio, l’una contro l’altra armate, e anziché perdersi dietro un ipotetico quanto forzato Spirito del Concilio, legge per davvero i documenti di questo, il loro significato fatto palese dal senso delle parole effettivamente utilizzate, e vi trova la riaffermazione della Fede e della Tradizione, sia pure a tratti esposte in un modo che, senza in alcun modo mutare la sostanza della dottrina, cercava nella formulazione di essere più vicino alla sensibilità dell’uomo allora contemporaneo (oggi dobbiamo dire, passati quarant’anni, che a ben vedere l’uomo degli anni Sessanta non corrisponde più molto a quello del XXI secolo).

 

Questa “ermeneutica della continuità”, conclude il Papa, ha dato frutti, certo nascosti (il bene, d’altronde, è lento e paziente e le foreste impiegano più tempo a crescere che a bruciare in rovina) ed ancor più è destinato a produrne in futuro quando sarà finalmente rigettata dal Corpo della Chiesa quella schizofrenia del post-concilio che ha portato a rigettare le proprie radici e a minare la credibilità della Chiesa (un’istituzione che contraddice quanto aveva fino allora proclamato, non arriverà domani a considerare sbagliato e infondato quanto oggi asserisce?).

 

Il ritorno della Tradizione, calpestata, disprezzata e perseguitata contro ogni intenzione dei Padri conciliari, non è dunque se non uno degli aspetti di reale ed effettiva applicazione del Concilio Vaticano II, di quello vero e non di quello vagheggiato, stravolto e inventato da teologi e liturgisti malati di egocentrismo. Il nostro compito è, nell’infima parte che ci compete e per quanto umilmente possibile, contribuire con l’azione e con la preghiera a quest’opera grandiosa, dalla quale dipenderà, crediamo, il ritorno alla Fede di molte persone che oggi, disilluse da discorsi ambigui e antropocentrici e da liturgie sciatte e dimentiche di ogni afflato verso il Sublime, cercano purtroppo altrove – o hanno smesso del tutto di cercare - le “parole di vita eterna”. E ci scusiamo fin d’ora se la passione che ci pervade (memori dell’espressione biblica: “lo zelo per la Tua casa mi divora”) ci porterà a toni non sempre misurati come vorremmo e dovremmo; il parlar franco è sì salutare ed è stato, purtroppo, cosa rara nella Chiesa degli ultimi decenni, ma vogliamo in ogni caso riaffermare la nostra filiale devozione alla Santa Chiesa ed ai suoi Pastori e attenerci all’aureo principio: in omnibus charitas.

 

car les vrais amis du peuple ne sont ni révolutionnaires ni novateurs, mais traditionalistes

(S. Pio X, enciclica Notre charge apostolique)

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[1] Anche un fiero avversario del motu proprio come il liturgista don Manlio Sodi, ha ritenuto opportuno usare l’espressione di Messa in latino per indicare la Messa antica, titolando un pamphlet scritto contro di essa Il Messale di Pio V. Perché la Messa in latino nel III millennio (Il Messaggero, Padova, 2007).

2 Per chi volesse un esempio tra i tanti dell’abusiva sostituzione di uno “spirito conciliare” al Concilio vero e proprio, si veda questa pagina del sito francese cattoprogressista Golias: nei commenti in fondo interviene criticamente Denis Crouan (che da anni si batte contro gli abusi liturgici per un rito ordinario rispettoso del Messale di Paolo VI, in latino e gregoriano) lamentando di essere stato definito nell’articolo come “anticonciliare”, ricordando che la sua posizione è del tutto sostenuta dai testi del Concilio. L’autore dell’articolo Terras risponde allora con questo commento, non privo di poesia ma rivelatore: “Per il Sig. CROUAN ‘conciliare’ significa fedeltà letterale ai testi e alle norme liturgiche [sottinteso: emanati dal Concilio]; per noi al contrario, ‘conciliare’ va inteso nel senso di uno slancio, un impulso, un inizio, un’audacia di creatività e d’apertura al mondo nonché di rinnovamento ecclesiale e autenticamente evangelico, senza la polvere di una certa storia della tradizione cristiana” (trad. e sottol. nostra).