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CHE COSA IL CONCILIO AVEVA STABILITO

IN MATERIA LITURGICA

 

 

La costituzione del Concilio Vaticano II sulla liturgia, intitolata Sacrosanctum Concilium (per il testo integrale, nella versione in italiano dal sito del Vaticano, clicca qui), stabilisce (SC 4) che i riti esistenti vanno conservati e in ogni modo favoriti e che “dove sia necessario, essi siano riveduti con cautela nell’integrità e nello spirito della sana tradizione”. Il Concilio, quindi, raccomanda cautela, prudenza, rispetto della tradizione per ogni innovazione che si rendesse necessaria.

 

Si dice al (SC 14) che i fedeli devono essere condotti ad una piena, conscia ed attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche. Ora, questa actuosa participatio (attiva partecipazione) è ricorrente anche nel Magistero anteriore: S. Pio X, nel motu proprio Tra le sollecitudini sulla musica sacra, si serve del concetto per raccomandare che i fedeli cantino in gregoriano. Lo stesso concetto fu ribadito da Pio XI nella lettera apostolica Divini Cultus; Pio XII, nella Mediator Dei, utilizza ancora l’espressione di partecipazione attiva nel senso di canto comunitario del gregoriano (in tal senso è chiarissima l’Istruzione 3.9.1958 della Congregazione dei Riti: “Nella Messa solenne l’attiva partecipazione dei fedeli può essere di tre gradi: [..] quando tutti i fedeli danno cantando le risposte liturgiche [..] quando tutti i fedeli cantano anche le parti dell’ordinario della Messa [..] quando tutti i presenti siano talmente preparati da poter cantare anche le parti del proprio della Messa”).

 

Che cosa intendevano quindi i Padri conciliari raccomandando l’actuosa participatio? Si limitavano a richiedere, come già i Papi Pio X, XI e XII, una corale partecipazione dei fedeli al canto gregoriano in latino? Il documento citato prosegue col dire che al fine di conseguire quella piena, conscia e attiva partecipazione, i pastori d’anime devono tendere con zelo a tale effetto per mezzo della necessaria educazione del popolo dei fedeli. Una raccomandazione che sarebbe superflua, se si fosse pensato ad una riforma della liturgia come poi avvenne di fatto, in cui il linguaggio è quello quotidiano e la musica ancor più ordinaria. Tanto meno la partecipazione attiva deve necessariamente consistere in una... attività. Come ha chiarito molto bene, tra gli altri, Giovanni Paolo II, “la partecipazione attiva non preclude la attiva passività [bellissimo ossimoro, n.d.r.] del silenzio, della compostezza e dell’ascolto: anzi, la richiede perfino. I fedeli non sono passivi, ad esempio, quando ascoltano le letture o l’omelia, o seguono le preghiere del celebrante e i canti e la musica della liturgia. Queste sono esperienze di silenzio e di immobilità, ma sono nel loro modo profondamente attive” (Giovanni Paolo II, Discorso ai vescovi della conf. episcopale Stati Un. America 9.10.1998, riportata qui, trad. e sottolin. nostra).

 

I Padri conciliari non richiesero quindi una riforma liturgica che portasse ad una facile e immediata comprensione dei gesti e dei testi della S. Messa da parte dei fedeli; al contrario chiesero che il rito, per natura avvolto di sacralità e di mistero, fosse reso accessibile e partecipato tramite l’educazione religiosa dei fedeli. Poiché è forma di consapevole e attiva partecipazione anche la semplice reverente assistenza al rito.

 

In questo senso, troviamo la chiave di interpretazione dell’intera Sacra Costituzione al n. 23: “non vi deve essere alcuna innovazione a meno che non lo richieda il vero e accertato bene della Chiesa”. Non solo: il medesimo articolo continua dicendo che “occorre aver cura che ogni nuova forma [liturgica] adottata cresca in qualche modo organicamente dalle forme già esistenti”. Ecco quindi sancito (vanamente, purtroppo) un duplice vincolo ad ogni innovazione: essa dev’essere veramente utile e opportuna, perché la regola è la conservazione dell’esistente, e in ogni caso quell’innovazione di cui sia accertata la sicura utilità dev’essere tale che si inserisca in un’evoluzione organica (quindi senza cesure, invenzioni, ritorni a forme arcaicizzanti) della liturgia come la vivevano i Padri conciliari (siamo nel 1963!).

 

Il Concilio Vaticano II non si è limitato a enunciare questi condivisibilissimi orientamenti generali di cauta riforma nel solco di un’evoluzione organica, ma ha anche normativamente stabilito quali fossero tali opportune riforme, elencandole in nove punti. Eccoli (SC 50 ss.):

 

1.  Semplificare i riti, “conservando fedelmente la sostanza”, togliendo le duplicazioni e aggiunte superflue accumulate nel corso dei secoli e ripristinando elementi perduti.

2.  Aprire maggiormente il tesoro della Bibbia ai fedeli

3.  Considerare l’omelia come parte della liturgia specie domenicale

4.  Reintrodurre la preghiera dei fedeli.

5.  Nelle messe celebrate col popolo, una parte della liturgia può essere svolta nella lingua vernacolare. Quale parte? Precisa la Sacrosanctum Concilium: le letture e la preghiera dei fedeli; ma anche, se lo richiedessero le condizioni locali, quelle parti che pertengono al popolo. “Tuttavia” precisa subito il documento “occorre fare in modo che i fedeli siano in grado di rispondere o cantare le parti dell’ordinario della Messa che pertengono a loro”, ovviamente in latino. Poiché almeno tutto l’ordinario, nelle intenzioni dei Padri, doveva restare in latino, salvo casi affatto speciali (ad es. in terra di missione)! Anche al n. 36 leggiamo: “L'uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini. Dato però che, sia nella messa che nell'amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l'uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme esposte nei capitoli seguenti per i singoli casi”. Maggiore spazio alla lingua volgare è concesso (ma non concerne la Messa) per sacramenti e sacramentali; mentre per l’ufficio divino è disposto (SC101) “Secondo la secolare tradizione del rito latino, per i chierici sia conservata nell'ufficio divino la lingua latina. L'ordinario tuttavia potrà concedere l'uso della versione in lingua nazionale [..] in casi singoli, a quei chierici per i quali l'uso della lingua latina costituisce un grave impedimento alla recita dell'ufficio nel modo dovuto”. Come si vede, per i Padri conciliari il latino è sempre e deve restare la regola, la lingua nazionale l’eccezione.

6.  Se possibile, per la comunione ai fedeli siano adoperate ostie consacrate nella messa cui hanno partecipato. E’ anche introdotta la possibilità di comunione sotto le due specie, ma per casi ben delimitati, come al neo presbitero nella messa di ordinazione, al neo professo nella messa in cui prende i voti, al catecumeno nella messa che segue il suo battesimo.

7.  Si precisa che la Messa si compone di una Liturgia della Parola e di una Liturgia eucaristica e che anche la prima è importante e va seguita (visto l’andazzo di molti che all’epoca entravano in chiesa solo dall’offertorio).

8.  Si permette la concelebrazione in casi particolari e precisamente indicati ed elencati, dichiarando comunque lecito il rifiuto di concelebrare.

9.  Si stabilisce che dev’essere fissato un nuovo rito per la concelebrazione.

 

Queste, e soltanto queste, le riforme volute dal Concilio.

 

Al n. 112, dedicato alla musica liturgica, i Padri dichiarano: “La tradizione musicale della Chiesa universale è un tesoro di inestimabile valore, più grande persino di quello di ogni altra arte” (più, quindi, delle grandiose architetture delle cattedrali, dei crocifissi dipinti di Giotto e Cimabue, della Pietà o del Mosè di Michelangelo...). E questo perché “come sacro canto unito alle parole, essa forma una parte necessaria o integrale della solenne liturgia”, che è tanto più sacra quanto più è connessa con l’azione liturgica. E ora viene il punto clou, che tanti sedicenti “conciliari” (purtroppo anche mitrati), si fanno un punto d’onore d’ignorare: “il tesoro della musica sacra dev’essere preservato e incrementato con grande cura” (SC 114) e soprattutto: “La Chiesa riconosce che il canto gregoriano è particolarmente adatto alla liturgia romana. Pertanto, a parità di condizione, ad esso deve riconoscersi il primo posto nei servizi liturgici” (SC 116). E il secondo posto, attenzione, non è per le canzonette: bensì, prosegue il testo conciliare, per la polifonia! L’art. 117 raccomanda anche di pubblicare edizioni tipiche di canto gregoriano ed anche una versione semplificata per le chiese più piccole.

 

Per essere veramente “conciliari”, quindi, occorre cantare la Messa in gregoriano e in latino!

 

Perché tanta importanza per il canto gregoriano? Non solo perché è magnifico; ma anche perché le sue dirette origini sono nel canto del Tempio e delle Sinagoghe ai tempi di Gesù: si chiama gregoriano perché Papa Gregorio Magno (VI sec. d.C.) lo codificò e raccolse, non perché lo inventò; le sue origini risalgono invece ai secoli prima di Cristo e cantavano in gregoriano, ante litteram, San Giuseppe, San Gioachimo e gli Apostoli nella sinagoga quando, appunto, salmodiavano, ossia cantavano i salmi di Re Davide.

 

Anche per l’organo i Padri conciliari hanno parole quasi commosse di apprezzamento (SC 120): “Nella Chiesa latina si abbia in grande onore l'organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti

 

In definitiva, le due più significative raccomandazioni del Concilio, sono state: L'uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini (SC36) e “La Chiesa riconosce che il canto gregoriano è particolarmente adatto alla liturgia romana. Pertanto, a parità di condizione, ad esso deve riconoscersi il primo posto nei servizi liturgici” (SC116). Tutti sappiamo quel che è stato di tali intenzioni del Concilio.

 

Ma altrettanto importanti sono anche le cose che il Concilio NON ha detto. Ne facciamo un rapido (e non esaustivo) elenco:

 

1)  Non ha detto che la celebrazione debba o possa effettuarsi rivolti al popolo anziché rivolti verso il Signore, come è sempre stato dai tempi apostolici, e non dal medioevo come spesso si ripete (cfr. Lang, Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica, Cantagalli, 2006, passim, citato favorevolmente da S.S. Benedetto XVI nella prefazione al vol. XI della sua Opera omnia, Herder, 2009). E aggiungiamo: non solo non si dice nulla dell’orientamento del celebrante nella Sacrosanctum Concilium; non se ne parla nemmeno nei documenti preparatori: ‘girare gli altari’ è proprio questione aliena del tutto dal pensiero dei Padri conciliari.

2)  Non ha detto che il Tabernacolo dovesse o potesse spostarsi dalla sua posizione centrale nel presbiterio; e men che meno che al suo posto dovesse intronizzarsi il celebrante ponendovi il suo seggio.

3)  Non ha detto che la comunione possa riceversi in piedi, e ancor meno sulle mani anziché, come è sempre stato almeno dal VI secolo in poi, in ginocchio e sulla lingua

4)  Non ha detto che si debbano, o anche solo che si possano rimuovere le balaustre del presbiterio, o che si debba o possa spostare l’altare in mezzo ai fedeli.

5)  Non ha detto che si debbano o possano comporre nuovi canoni di consacrazione eucaristica o anche solo modificare il canone romano (attuale canone I). Di fatto, invece, dopo il Concilio fu modificato in parte il canone romano  (e nella traduzione in italiano e in altre lingue, in modo molto evidente, traducendo infedelmente “pro multis”, riferito al sangue versato da Gesù, con “per tutti”); furono aggiunte altre preci eucaristiche: la II, la più breve e quindi la più usata, detta di S. Ippolito ma in realtà solo molto liberamente ispirata all’anafora di quest’ultimo, risalente al terzo secolo; la III, interamente di nuova fabbricazione; il canone IV, basato su un’anafora copta; nonché vari canoni locali, o per fanciulli, e così via.

6)  Non ha detto che si dovessero limitare o eliminare devozioni tradizionali come processioni, adorazioni eucaristiche, rosario (in Italia, per fortuna, non abbiamo avuto su questo punto la furia iconoclasta di altri paesi, in particolare Francia, Olanda e Germania).

7)  Non ha detto che vanno rimossi dalle chiese gli inginocchiatoi.

 

Anzi a ben vedere tutte queste cose sono state condannate genericamente e in via preventiva dal Concilio stesso, quando ha disposto che ogni riforma sia non solo cauta e risponda ad esigenze vere e accertate, ma soprattutto rappresenti uno sviluppo organico dall’esistente (SC 23). Cosa che, all’evidenza, non può dirsi di tali innovazioni.

 

E ancora, ha condannato in partenza (ma con ben poca efficacia) ogni creatività di celebranti e liturgisti, riservando alla gerarchia della Chiesa la regolazione della liturgia: “assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica” (SC 22 §. 3).

 

Si comprendono allora queste parole accorate dell’allora card. Ratzinger in una conferenza del 24 Ottobre 1998: “Il Concilio non ha, per se stesso, riformato (nel senso di inventare) i libri liturgici, ma ha disposto la loro revisione, e a tal fine ha dato alcune norme fondamentali. Prima di ogni altra cosa, il Concilio ha dato una definizione di cosa sia la liturgia, e tale definizione costituisce il termine di paragone per ogni celebrazione liturgica. Dove si scansano tali norme e si mettono da parte le normae generales che si trovano ai numeri 34 - 36 della Constitutio De Sacra Liturgia (Sacrosanctum Concilium), in tal caso certamente ci si rende colpevoli di disobbedienza al Concilio!” (in Notiziario Una Voce, 126-127).

 

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Infine, vorremmo aggiungere due parole sulla luminosa figura di Papa Giovanni XXIII, che la vulgata progressista (capitanata dalla Scuola di Bologna di Dossetti e Alberigo, la quale ha monopolizzato fino a tempi recenti l’interpretazione del Concilio, inteso come “discontinuità” rispetto a prima) dipinge come un pontefice “profetico”, nel senso che aperse la porta della Chiesa alle mille innovazioni che i progressisti hanno imposto o vogliono ancora imporre; un novatore, uno spirito di apertura e di modernizzazione. Per contro Paolo VI, sempre secondo la Scuola di Bologna, assume l’antipatico compito di soffocatore di buona parte degli aneliti conciliari e di cattivo interprete dello Spirito del Concilio: si cita in particolare l’enciclica Humanae Vitae sul divieto degli anticoncezionali.

 

Orbene, quel che è vero è che Papa Giovanni aveva un temperamento e un physique du rôle di giovialità contadina, nonché la parola spontanea e diretta, tali da attirargli l’umana simpatia delle folle; laddove Paolo VI era un intellettuale più introverso ed a tratti tormentato ed amletico (anche per il difficile periodo che dovette affrontare). Sicché viene naturale, per i modernisti, appioppare al primo il ruolo di ‘buono’ e al secondo quello di ‘cattivo’ (o timido, o timoroso, od ostaggio di una curia reazionaria).

 

Ma la realtà è che Papa Giovanni XXIII, e molto più di Papa Paolo VI, fu un papa assolutamente conservatore (e usiamo questo aggettivo - che per i gregari della Scuola di Bologna è un insulto - poiché tale lo definì il cardinale Oddi). Cercatene qualche fotografia in internet: lo troverete assiso sulla sedia gestatoria tra i flabelli e la guardia nobile, o con la tiara o il camauro in testa (tutte cose abolite o disusate da Paolo VI); pensate forse che dovette subire controvoglia tanto sfoggio di sfarzo medioevale un Pontefice di quella tempra, che ebbe il coraggio di convocare il Concilio, o di modificare il canone intoccato da un millennio, inserendovi il nome di S. Giuseppe (altra mossa che imbestialì i progressisti filo-protestanti)?

 

E per passare dagli orpelli ai suoi atti, Papa Roncalli fu colui che a proposito della lingua latina scrisse (nella costituzione apostolica Veterum Sapientia): “abbiamo deciso, con opportune norme, enunciate in questo documento, di fare in modo che l'antica e mai interrotta consuetudine della lingua latina sia conservata e, se in qualche caso sia andata in disuso, sia completamente ripristinata [..] I medesimi Vescovi e Superiori Generali degli Ordini religiosi, mossi da paterna sollecitudine, vigileranno affinché nessuno dei loro soggetti, smanioso di novità, scriva contro l’uso della lingua latina nell’insegnamento delle sacre discipline e nei sacri riti della Liturgia e, con opinioni preconcette, si permetta di estenuare la volontà della Sede Apostolica in materia e di interpretarla erroneamente”.  Vi immaginate se mai avrebbe potuto approvare una riforma che, pochi anni dopo, ha di fatto eliminato l’uso del latino “nei sacri riti della Liturgia”? O che cosa avrebbe detto degli altari girati al popolo, egli che nel suo diario privato, quand’era nunzio a Parigi, annotava: “Assistetti alla Messa a S. Severino. Presi freddo e mi nocque. Musica assai migliorata ma la Messa face au peuple [=verso il popolo] una contraddizione grave alle leggi liturgiche. Tutto il Canone pronunciato a voce alta e non in secreto come prescrive il Messale […]Oh! Che pena con queste teste ardenti e un po’ bislacche” (cit. in Marco Roncalli, Giovanni XXIII, Mondatori, 2006, p. 679 nota 107)?

 

Ma non solo: sotto l’aspetto del governo ecclesiale, prese misure molto chiare in senso contrario alle attese dei progressisti. Non soltanto si scelse come Prefetto del S. Uffizio un cardinale tradizionalista come Ottaviani; ma pure emanò nel 1959 una condanna per i comunisti (anche per i semplici elettori, e financo per il voto alle comunali, e per i simpatizzanti), più dura perfino di quella di Pio XII nel 1947; e nell’enciclica Mater et Magistra sferzò addirittura i socialdemocratici (“Tra comunismo e cristianesimo, il Pontefice ribadisce che l’opposizione è radicale, e precisa che non è da ammettersi in alcun modo che i cattolici aderiscano al socialismo moderato”, cap. 22). E’ vero che riceverà un delegato dell’URSS, ma si racconta dietro consiglio, tra gli altri, di uno come il card. Siri (non certo un progressista), che gli disse: “Lo riceva, Santità: quando questa gente cerca noi preti, vuol dire che sentono la fine vicina”.

 

Ancora: vietò al clero di Roma di andare al cinema o allo stadio, di viaggiare in auto con una donna o di dismettere la talare. Condannò severamente (e peggio ne disse) l’idolo dei progressisti, quel don Milani (suoi gli slogan: Non bocciare! e L’obbedienza non è più una virtù) cui si ispireranno, negli anni a venire, le riforme eversive della scuola fino ad allora meritocratica e seria. E fulminò pure con una monizione del giugno 1962 le opere del teologo Teilhard de Chardin (deceduto nel 1955), che diventerà poi una figura di bandiera del post-concilio.

 

Egli fu davvero un “Papa buono”. Ma non nel senso in cui l’intendono i modernisti: per citare il vaticanista Aldo Maria Valli (coautore insieme al progressista vescovo emerito di Ivrea, mons. Luigi Bettazzi, di Difendere il Concilio, Ed. San Paolo, 2008), “Papa Giovanni XXIII, non ha affatto il contorno di un rivoluzionario,quanto di un parroco tridentino legato a San Carlo Borromeo. Ma nell’immaginario lo si dipinge molto diversamente” (intervista 17.11.08 a Pontifex.Roma).

 

Questo non significa che il successore, Paolo VI, sia stato un cattivo pontefice. Egli però si trovò a gestire una situazione ecclesiale impazzita, poiché le attese millenaristiche suscitate dal Concilio (certo oltre la volontà di Giovanni XXIII), congiunte con la contestazione del Sessantotto, resero la Chiesa ingovernabile ed i suoi membri agitati dall’insana smania di gettare a mare tutto quel che li aveva preceduti, per creare l’uomo nuovo e la Chiesa nuova, e portare “l’immaginazione al potere”, secondo gli slogan allora in voga. Paolo VI ritenne prioritario di salvare da quel diluvio universale la sostanza dottrinale (ad esempio imponendo la revisione dell’eretico catechismo olandese pubblicato dalla Conferenza episcopale di quel paese, o pubblicando documenti come la Humanae Vitae in campo morale, o il Credo del Popolo di Dio in campo dogmatico); ma in contropartita a tutto ciò e per placare i novatori, e in parte anche perché convintone, accettò gravi concessioni in ambito liturgico (pur sforzandosi di ridurle: ad es. reintroducendo nella messa l’Orate fratres ed il concetto stesso di sacrificio accanto a quello, prettamente protestante, di ‘cena del Signore’).

 

In tal modo però Paolo VI, credendo di salvare la dottrina sacrificando la liturgia, finì col sottostimare l’antico adagio per cui v’è diretta corrispondenza tra la lex orandi e la lex credendi; sicché, demolito l’antico edificio liturgico per costruirne uno totalmente nuovo (l’espressione è di Ratzinger, La mia vita, citato nella nostra pagina dedicata ai suoi scritti), era inevitabile che, a lungo andare, la percezione della millenaria fede cristiana venisse gravemente intaccata (oggi, ad es., 67% dei – pochi – praticanti francesi non credono più alla presenza reale, e un quarto nemmeno alla resurrezione: sondaggi de La Croix, quotidiano legato alla Conf. Episcop. franc.).

 

Paolo VI ebbe la lucidità di accorgersi, troppo tardi, del dramma e in una celebre omelia dichiarò: “da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio. C’è il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione, il confronto. [..] Anche nella Chiesa regna questo stato di incertezza. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza. [..] Crediamo in qualcosa di preternaturale venuto nel mondo proprio per turbare, per soffocare i frutti del Concilio Ecumenico, e per impedire che la Chiesa prorompesse nell’inno della gioia di aver riavuto in pienezza la coscienza di sé” (omelia del 29.6.1972, riportata qui). Secondo la testimonianza del filosofo Jean Guitton, avrebbe perfino detto “C'è un grande turbamento in questo momento nel mondo e nella Chiesa, e ciò che è in questione è la fede. Capita ora che mi ripeta la frase oscura di Gesù nel Vangelo di san Luca: Quando il Figlio dell'Uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla terra? Capita che escano dei libri in cui la fede è in ritirata su punti importanti, che gli episcopati tacciano, che non si trovino strani questi libri” (Jean Guitton, Paolo VI segreto, Ed. Paoline, 1985, p. 152). E per citare don Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione: “Era stato Paolo VI che, con tutta buona fede, aveva visto favorevolmente una certa evoluzione della Chiesa. Ma tanta era la verità del suo amore alla Chiesa che, a un certo punto, dovette accorgersi del disastro cui la dinamica delle cose – pur [da lui] approvate – portava” (citato nel sito di Magister a questo link).

 

Poiché veramente, è il caso di dire in conclusione, “la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia(Ratzinger, La mia vita, cit. nella pagina sui suoi scritti liturgici).