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Dal libro La festa della fede, Jaca Book, 1983

 

Nell'edizione in lingua tedesca, largamente diffusa, dei testi del Concilio Vaticano II a cura di Karl Rahner e Herbert Vorgrimler, il breve commento al capitolo della costituzione liturgica sulla musica è introdotto dalla stupefacente osservazione che l'arte pura, com'essa si trova nella musica sacra, "è difficilmente conciliabile, partendo dalla sua natura esoterica (nel senso corretto del termine), con la natura della liturgia e con il supremo principio della riforma liturgica".

Questa tesi è stupefacente, in quanto il testo che essa - commenta la Costituzione Liturgica - ravvisa nella musica sacra "non soltanto un accessorio e un abbellimento della liturgia", ma è essa stessa liturgia, parte costitutiva e integrante di tutta l'azione liturgica.

Certamente Rahner e Vorgrimler non intendono escludere dal culto divino ogni tipo di musica; ciò che pare loro incompatibile con la sua natura è soltanto l'arte vera e propria, cioè la musica tradizionale della Chiesa occidentale. Essi ritengono pertanto che la raccomandazione del Concilio, che "si deve conservare e curare con la massima diligenza il tesoro della musica sacra", non dica che "ciò debba avvenire nell'ambito della liturgia".

Per conseguenza, anche con riferimento alla raccomandazione conciliare dei cori vocali, si mette particolarmente in rilievo che essa si riferirebbe "soprattutto" alle chiese cattedrali, e che da tutto il contesto si ricava l'impressione che il Concilio tenda veramente a volerla vedere lì soltanto, e anche ciò con la limitazione che essa non ostacoli la attiva partecipazione del popolo s. Secondo Rahner e Vorgrimler fa perciò normalmente parte della liturgia non la "musica sacra vera e propria", ma la "cosiddetta musica d'uso".

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Ora, se si confronta lo stesso testo conciliare con il commento di Rahner e di Vorgrimler, si riscontra tra i due un rapporto che, di là da questo caso particolare, può essere considerato sintomatico per la differenza tra il proprio dei testi conciliari e la maniera di appropriarsene nella Chiesa postconciliare. Nel dibattito conciliare si provoca la sensibilizzazione per un problema finora mai avvertito con tale acutezza: la tensione fra l'esigenza dell'arte e la semplicità della liturgia si fa cosciente; nella contrapposizione tra specialisti e curatori d'anime emerge una prevalenza della sollecitudine pastorale, che inizia a spostare unilateralmente la visuale d'insieme. Il testo stesso conserva, nello sforzo per l'univocità, un arduo equilibrio, ma viene poi magari letto partendo da una nuova sensibilità per un solo lato del problema, e così l'equilibrio diviene una ricetta molto manipolabile: musica d'uso per la liturgia; la "vera e propria musica sacra" la si può curare in altro modo: essa non si adatta più alla liturgia.

Solo che occorre allora rendersi anzitutto conto che la "vera e propria musica sacra" non è affatto musica sacra, e che una "vera e propria musica sacra" non esiste veramente più. Negli anni trascorsi da allora è innegabile che si è fatto sempre più tristemente percepibile il pauroso impoverimento che si manifesta dove si mostra la porta al bello ateleologico nella chiesa e in suo luogo ci si assoggetta esclusivamente all'"uso". Ma i brividi che incute la liturgia postconciliare, fattasi opaca, o semplicemente la noia che essa provoca con il suo gusto per il banale e con la sua mediocrità artistica non chiariscono la questione; questa evoluzione ha comunque creato una situazione nella quale si è sempre e di bel nuovo nella necessità di porsi dei problemi.

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Una chiesa che faccia soltanto della "musica d'uso" cade nell'inetto e diviene essa stessa inetta. La Chiesa ha un'incombenza ben più alta: ha il dovere come si dice del tempio veterotestamentario - di essere città della "gloria", nonché città nella quale sono portati agli orecchi di Dio i lamenti dell'umanità. La Chiesa non può appagarsi dell'ordinario e dell'usuale: deve ridestare la voce del cosmo, glorificando il Creatore e svelando al cosmo la sua magnificenza, renderlo splendido, e quindi bello, abitabile, amabile. L'arte che la Chiesa ha espresso è, accanto ai santi che vi sono maturati, l'unica reale "apologia" che essa può esibire per la sua storia. La magnificenza che esplose ad opera sua accredita il Signore, e non le acute scappatoie che la teologia escogita per gli aspetti terribili di cui purtroppo tanto abbonda la sua storia. Se la Chiesa deve convertire, migliorare, "umanizzare" il mondo, come può farlo e rinunciare nel con tempo alla bellezza, che fa tutt'uno con l'amore e con esso è la vera consolazione, il massimo accostamento possibile al mondo della resurrezione? La Chiesa non deve accontentarsi facilmente; dev'essere un focolare del bello, guidare la lotta per la "spiritualizzazione", senza la quale il mondo diventa "il primo cerchio dell'inferno". Perciò il problema dell'"adatto" deve essere anche e sempre il problema del "degno" e la provocazione a cercare questo "degno".