Estratto
da V. Messori, Rapporto sulla Fede. Vittorio Messori a
colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger, Ed. San Paolo, 1985, p. 123
ss.
« Pertanto – esortava il professor
Ratzinger – ci si deve opporre, più decisamente di quanto sia stato fatto
finora, all’appiattimento razionalistico, ai discorsi approssimativi,
all’infantilismo pastorale che degradano la liturgia cattolica al rango di
circolo di villaggio e la vogliono abbassare a un livello fumettistico. Anche
le riforme già eseguite, specialmente riguardo al rituale, devono essere
riesaminate sotto questi punti di vista ».
Mi ascolta, con l’attenzione e la
pazienza consuete, mentre gli rileggo queste sue parole. Sono passati dieci
anni da allora, l’autore di una simile messa in guardia non è più un semplice
studioso, è il custode dell’ortodossia stessa della Chiesa. Il Ratzinger di
oggi, Prefetto della fede, si riconosce ancora in questo brano?
« Interamente – non esita a rispondermi –. Anzi, da quando scrivevo queste
righe altri aspetti che sarebbero stati da salvaguardare sono stati
accantonati, molte ricchezze superstiti sono state dilapidate. Allora, nel
1975, molti colleghi teologi si dissero scandalizzati, o almeno sorpresi, dalla
mia denuncia. Adesso, anche tra loro, sono numerosi quelli che mi hanno dato
ragione, almeno parzialmente ». Si sarebbero cioè verificati ulteriori equivoci
e fraintendimenti che giustificherebbero ancor più le parole severe di sei anni
dopo, nel libro recente che citavamo: « Certa liturgia post-conciliare, fattasi
opaca o noiosa per il suo gusto del banale e del mediocre, tale da dare i
brividi...
La
lingua, per esempio...
Per lui, proprio nel campo liturgico –
sia negli studi degli specialisti che in certe applicazioni concrete – si
constaterebbe « uno degli esempi più vistosi di contrasto tra ciò che dice il
testo autentico del Vaticano II e il modo con cui è stato poi recepito e
applicato ».
Esempio sin troppo famoso, si sa (ed
esposto al rischio di strumentalizzazioni), è quello dell’impiego del latino,
sul quale il testo conciliare è esplicito: « L’uso della lingua latina, salvo
diritti particolari, sia conservato nei riti latini » (Sacrosanctum Conciliurn, n. 36). Più avanti, i Padri raccomandano:
« Si abbia (...) cura che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche
in lingua latina, le parti dell’Ordinario della Messa che spettano ad essi »
(n. 54). Più avanti ancora, nello stesso documento: « Secondo la secolare
tradizione del rito latino, per i chierici sia conservata nell’Ufficio divino
la lingua latina » (n. 101).
[..]
Lo vedo scuotere il capo: «Che vuole,
anche questo è tra i casi di una sfasatura – purtroppo frequente in questi anni
– tra il dettato del Concilio, la struttura autentica della Chiesa e del suo
culto, le vere esigenze pastorali del momento e le risposte concrete di certi
settori clericali. Eppure la lingua liturgica non era affatto un aspetto
secondario. All’origine della frattura tra Occidente latino e Oriente greco c’è
anche una questione di incomprensione linguistica. È probabile che la scomparsa
della lingua liturgica comune possa rafforzare le spinte centrifughe tra le
varie aree cattoliche ».
[..]
«
La liturgia non è uno show, uno
spettacolo che abbisogni di registi geniali e di attori di talento. La liturgia
non vive di sorprese “simpatiche”, di trovate “accattivanti”, ma di ripetizioni
solenni. Non deve esprimere l’attualità e il suo effimero ma il mistero del
Sacro. Molti hanno pensato e detto che la liturgia debba essere “fatta” da
tutta la comunità, per essere davvero sua. È una visione che ha condotto a
misurarne il “successo” in termini di efficacia spettacolare, di
intrattenimento. In questo modo è andato però disperso il proprium liturgico che non deriva da ciò che noi facciamo, ma dal
fatto che qui accade Qualcosa che noi tutti insieme non possiamo proprio fare.
Nella liturgia opera una forza, un potere che nemmeno
Continua: « Per il cattolico, la liturgia
è
C’è poi un altro ordine di problemi sul
quale Ratzinger vuole richiamare l’attenzione: « Il Concilio ci ha giustamente
ricordato che liturgia significa anche actio,
azione, e ha chiesto che ai fedeli sia assicurata una actuosa participatio, una partecipazione attiva ».
Mi sembra ottima cosa, dico.
« Certo – conferma –. E un concetto
sacrosanto che però, nelle interpretazioni postconciliari, ha subito una
restrizione fatale. Sorse cioè l’impressione che si avesse una “partecipazione
attiva” solo dove ci fosse un’attività esteriore, verificabile: discorsi,
parole, canti, omelie, letture, stringer di mani... Ma si è dimenticato che il
Concilio mette nella actuosa participatio
anche il silenzio, che permette una partecipazione davvero profonda, personale,
concedendoci l’ascolto interiore della Parola del Signore. Ora, di questo
silenzio non è restata traccia in certi riti ».
Suoni
e arte per l’Eterno
E qui si aggancia un suo discorso sulla
musica sacra, quella musica tradizionale dell’Occidente cattolico alla quale il
Vaticano II non ha certo misurato le lodi, esortando non solo a salvare ma a
incrementare « con la massima diligenza » questo che chiama « il tesoro della
Chiesa »; e, dunque, dell’umanità intera.
« Invece, molti liturgisti hanno messo da parte quel tesoro, dichiarandolo
“accessibile a pochi”, l’hanno accantonato in nome della “comprensibilità per
tutti e in ogni momento” della liturgia postconciliare. Dunque, non più “musica
sacra” – relegata, semmai, per occasioni speciali, nelle cattedrali – ma solo
“musica d’uso”, canzonette, facili melodie, cose correnti ».
Anche qui il Cardinale ha facile gioco
nel mostrare l’allontanamento teorico e pratico dal Concilio « secondo il
quale, oltretutto, Ia musica sacra è essa stessa liturgia, non ne è un semplice
abbellimento accessorio ». E, secondo lui, sarebbe anche facile mostrare come «
l’abbandono della bellezza » si sia dimostrata, alla prova dei fatti, un motivo
di « sconfitta pastorale ».
Dice: « È divenuto sempre più percepibile
il pauroso impoverimento che si manifesta dove si scaccia la bellezza e ci si
assoggetta solo all’utile. L’esperienza ha mostrato come il ripiegamento
sull’unica categoria del “comprensibile a tutti” non ha reso le liturgie
davvero più comprensibili, più aperte, ma solo più povere. Liturgia
“semplice” non significa misera o a buon mercato: c’è la semplicità che viene
dal banale e quella che deriva dalla ricchezza spirituale, culturale, storica
». «Anche qui – continua – si è messa da parte la grande musica della Chiesa in
nome della “partecipazione attiva”: ma questa “partecipazione” non può forse
significare anche il percepire con lo sprito, con i sensi? Non c’è proprio
nulla di “attivo” nell’ascoltare, nell’intuire, nel commuoversi? Non c’è qui un
rimpicciolire l’uomo, un ridurlo alla sola espressione orale, proprio quando
sappiamo che ciò che vi è in noi di razionalmente cosciente ed emerge alla
superficie è soltanto la punta di un iceberg
rispetto a ciò che è la nostra totalità? Chiedersi questo non significa
certo opporsi allo sforzo di far cantare tutto il popolo, opporsi alla “musica
d’uso”: significa opporsi a un esclusivismo (solo
quella musica) che non è giustificato né dal Concilio né dalle necessità
pastorali ».
Questo discorso sulla musica sacra –
intesa anche come simbolo di presenza della bellezza “gratuita” nella Chiesa –
sta particolarmente a cuore a Joseph Ratzinger che vi ha dedicato pagine
vibranti: « Una Chiesa che si riduca solo a fare della musica “corrente”
cade nell’inetto e diviene essa stessa inetta.
[..]
«
L’unica, vera apologia del cristianesimo può ridursi a due argomenti: i santi che
Mi parla di un teologo famoso, uno dei
leaders del pensiero post-conciliare che gli confessava senza problemi di
sentirsi un “barbaro”. Commenta: « Un teologo che non ami l’arte, la poesia, la
musica, la natura, può essere pericoloso. Questa cecità e sordità al bello non
è secondaria, si riflette necessariamente anche nella sua teologia».
Solennità, non trionfalismo
Ancora in questa linea, Ratzinger non è
affatto persuaso della validità di certe accuse di “trionfalismo”, nel nome
delle quali si sarebbe gettato via con eccessiva facilità molto dell’antica solennità
liturgica: « Non è affatto trionfalismo la solennità del culto con cui
[..]
« Per un certo modernismo neo-clericale
il problema della gente sarebbe il sentirsi oppressa dai “tabù sacrali”. Ma
questo, semmai, è il problema loro, di clericali in crisi. Il dramma dei nostri
contemporanei è, al contrario, il vivere in un mondo sempre più di una
profanità senza speranza. L’esigenza vera oggi diffusa non è quella di una
liturgia secolarizzata, ma, al contrario, di un nuovo incontro con il Sacro
attraverso un culto che faccia riconoscere la presenza dell’Eterno ».
Ma è sotto accusa, per lui, anche quello
che definisce « l’archeologismo romantico di certi professori di liturgia,
secondo i quali tutto ciò che si è fatto dopo Gregorio I Magno sarebbe da
eliminare come un’incrostazione, un segno di decadenza. A criterio del
rinnovamento liturgico non hanno posto la domanda: “Come deve essere oggi? “, ma l’altra: “Come era allora? “. Si dimentica che
Per Ratzinger, poi, la vita cultuale del
cattolico non può essere ridotta al solo aspetto “comunitario”: deve continuare
ad esserci un posto anche per la devozione privata, seppure ordinata al
“pregare insieme”, cioè alla liturgia.
Eucaristia:
nel cuore della fede
Aggiunge poi: « La liturgia, per alcuni
sembra ridursi alla sola eucaristia, vista quasi sotto l’unico aspetto del
“banchetto fraterno”. Ma la messa non è solamente un pasto tra amici, riuniti
per commemorare l’ultima cena del Signore mediante la condivisione del pane. La
messa è il sacrificio comune della Chiesa, nel quale il Signore prega con noi e
per noi e a noi si partecipa. E la rinnovazione sacramentale del sacrificio di
Cristo: dunque, la sua efficacia salvifica si estende a tutti gli uomini, presenti
e assenti, vivi e morti. Dobbiamo riprendere coscienza che l’eucaristia non è
priva di valore se non si riceve
Vorrei capire meglio, dico.
« Se l’eucaristia — spiega — è vissuta
solo come il banchetto di una comunità di amici, chi è escluso dalla ricezione
dei Sacri Doni è davvero tagliato fuori dalla fraternità. Ma se si torna alla
visione completa della messa (pasto fraterno e insieme sacrificio del Signore,
che ha forza ed efficacia in sé, per
chi vi si unisce nella fede), allora anche chi non mangia quel pane partecipa
egualmente, nella sua misura, dei doni offerti a tutti gli altri ».
All’eucaristia e al problema del suo
“ministro” (che può essere solo chi sia stato ordinato in quel « sacerdozio
ministeriale o gerarchico » il quale, riconferma il Concilio, « differisce
essenzialmente e non solo di grado » dal « sacerdozio comune dei fedeli », Lumen Gentium, n. 10) il card. Ratzinger
ha dedicato uno dei primi documenti ufficiali a sua firma della Congregazione
per la fede. Nel « tentativo di staccare l’eucaristia dal legame necessario con
il sacerdozio gerarchico », vede un altro aspetto di certa “banalizzazione” del
mistero del Sacramento.
È lo stesso pericolo che individua nella caduta dell’adorazione davanti al
tabernacolo: « Si è dimenticato — dice — che l’adorazione è un approfondimento
della comunione. Non si tratta di una devozione “individualistica” ma della
prosecuzione o della preparazione, del momento comunitario. Bisogna poi
continuare in quella pratica, così cara al popolo (a Monaco di Baviera, quando
la guidavo, vi partecipavano decine di migliaia di persone) della processione
del Corpus Domini. Anche su questa
gli “archeologi” della liturgia hanno da ridire, ricordando che quella
processione non c’era nella Chiesa romana dei primi secoli. Ma ripeto qui
quanto già dissi: al sensus fidei del
popolo cattolico deve essere riconosciuta la possibilità di approfondire,di
portare alla luce, secolo dopo secolo, tutte le conseguenze del patrimonio che
gli è affidato ».
«Non
c’è solo la messa »
Aggiunge: « L’eucaristia è il nucleo
centrale della nostra vita cultuale, ma perché possa esserne il centro
abbisogna di un insieme completo in cui vivere. Tutte le inchieste sugli
effetti della riforma liturgica mostrano che certa insistenza pastorale solo
sulla messa finisce per svalutarla, perché è come situata nel vuoto, non preparata
e non seguita com’è da altri atti liturgici. L’eucaristia presuppone gli altri
sacramenti e ad essi rinvia. Ma l’eucaristia presuppone anche la preghiera in
famiglia e la preghiera comunitaria extra-liturgica ».
A cosa pensa in particolare?
« Penso a due delle più ricche e feconde
preghiere della cristianità, che portano sempre e di nuovo nella grande
corrente eucaristica:
Infatti, osserva, « se recitato come
tradizione vuole, il Rosario porta a cullarci nel ritmo della tranquillità che
ci rende docili e sereni e che dà un nome alla pace: Gesù, il frutto benedetto
di Maria; Maria, che ha nascosto nella pace raccolta del suo cuore