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Estratto dal libro Il sale della terra. Cristianesimo e Chiesa Cattolica nella svolta del terzo millennio. Un colloquio con Peter Seewald, Ed. S.Paolo, 1997, p. 199

 

Nella nostra riforma liturgica c'è la tendenza, a parer mio sbagliata, ad adattare completamente la liturgia al mondo moderno. Essa dovrebbe quindi diventare ancora più breve e da essa dovrebbe essere allontanato tutto ciò che si ritiene incomprensibile; alla fin fine, essa dovrebbe essere tradotta in una lingua ancora più semplice, più "piatta". In questo modo, però, l'essenza della liturgia e la stessa celebrazione liturgica vengono completamente fraintese. Perché in essa non si comprende solo in modo razionale, così come si capisce una conferenza, bensì in modo complesso, partecipando con tutti i sensi e lasciandosi compenetrare da una celebrazione che non è inventata da una qualsiasi commissione di esperti, ma che ci arriva dalla profondità dei millenni e, in definitiva, dall'eternità.
Allorché l'Ebraismo perse il Tempio, rimase legato alle feste e ai riti sinagogali, e fu tenuto unito proprio grazie a questi grandi riti, in quanto celebrazioni della casa rimasta fedele al culto di Dio. Nei riti c'è una forma comune di vita, che non dipende solo da ciò che si comprende a livello superficiale, ma che ha a che fare con la grande continuità della storia della fede, che in essa si manifesta, e che rappresenta un'autorità, che non viene dal singolo. Il prete non è un presentatore che si inventa qualcosa e lo comunica abilmente. Può essere al contrario completamente sprovveduto come presentatore, perché comunque rappresenta qualcosa d'altro che non dipende affatto da lui.

Naturalmente anche la comprensibilità fa parte della liturgia e per questo la parola di Dio deve essere presentata bene e, poi, altrettanto bene spiegata e interpretata. Ma alla comprensibilità della parola contribuiscono altre modalità di comprensione. Prima di tutto essa non è qualcosa che viene continuamente inventato da nuove commissioni. Altrimenti diverrebbe qualcosa di fatto in casa, a propria misura, tanto se le commissioni si riuniscono a Roma, a Treviri o a Parigi. Invece essa deve avere la sua continuità, una sua non arbitrarietà ultima, in cui io possa incontrare i millenni e, attraverso essi, l'eternità, e in cui possa entrare in rapporto con una comunità in festa, che è qualcosa di ben diverso da ciò che un comitato o l'organizzazione di una festa potrebbero mai inventarsi.

Credo che proprio su questo punto sia nato un nuovo tipo di clericalismo, a partire dal quale si può comprendere meglio la richiesta del sacerdozio femminile. Viene attribuita importanza al sacerdote in persona, nella sua persona; egli deve essere abile e saper rappresentare tutto molto bene. È lui il vero centro della celebrazione. Di conseguenza, ci si chiede perché solo certe persone possono farlo. Se egli, al contrario, si fa indietro in quanto persona ed è davvero solo un rappresentante, e si limita a compiere con fede quel che gli è richiesto, allora quel che avviene non gira più intorno a lui, non ha la sua persona come centro, ma egli si fa da parte ed emerge finalmente qualcosa di più grande. In questo si deve vedere ancora di più la forza dirompente della tradizione non manipolabile. La sua bellezza e la sua grandezza toccano anche chi non sa elaborare e capire razionalmente tutti i dettagli. Al centro sta allora la parola, che viene annunciata e spiegata.

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Personalmente ritengo che si dovrebbe essere più generosi nel consentire l'antico rito a coloro che lo desiderano. Non si vede proprio che cosa debba esserci di pericoloso o inaccettabile. Una comunità mette in questione se stessa, quando considera improvvisamente proibito quello che fino a poco tempo prima le appariva sacro e quando ne fa sentire riprovevole il desiderio. Perché le si dovrebbe credere ancora? Non vieterà forse domani, ciò che oggi prescrive?