Prefazione
(riportata in 30Giorni, 2004, n. 12)
al libro di A. Reid, The Organic Development of the Liturgy,
St Michael's Abbey Press, 2004.
Negli ultimi decenni, la questione della corretta celebrazione
della liturgia è diventata sempre più uno dei punti centrali della controversia
attorno al Concilio Vaticano II, ovvero a come dovrebbe essere valutato e
accolto nella vita della Chiesa.
Ci sono gli strenui difensori della
riforma, per i quali è una colpa intollerabile che, a certe condizioni, sia
stata riammessa la celebrazione della santa Eucaristia secondo l'ultima
edizione del Messale prima del Concilio, quella del 1962. Allo stesso tempo, però, la liturgia è
considerata come "semper reformanda", cosicché alla fine è la
singola "comunità" che fa la sua "propria" liturgia, nella
quale esprime sé stessa. Un Liturgisches
Kompendium protestante (curato da Christian Grethlein e Günter Ruddat,
Göttingen 2003) ha recentemente presentato il culto come "progetto di
riforma" (pp. 13-41) riflettendo il modo di pensare anche di molti
liturgisti cattolici.
D'altra parte vi sono anche i critici
accaniti della riforma liturgica, i quali non solo criticano la sua pratica
applicazione, ma anche le sue basi conciliari. Essi vedono la salvezza solo nel
totale rifiuto della riforma.
Tra questi due gruppi, i riformisti
radicali e i loro avversari intransigenti, viene a perdersi spesso la voce di
coloro che considerano la liturgia come qualcosa di vivo, qualcosa che cresce e
si rinnova nel suo essere ricevuta e nel suo attuarsi. Costoro, peraltro, in
base alla stessa logica, insistono anche sul fatto che la crescita è possibile
solo se viene preservata l'identità della liturgia, e sottolineano che uno
sviluppo adeguato è possibile soltanto prestando attenzione alle leggi che
dall'interno sostengono questo "organismo". Come un giardiniere
accompagna una pianta durante la sua crescita con la dovuta attenzione alle sue
energie vitali e alle sue leggi, così anche
Se le cose stanno in tal modo, allora
dobbiamo cercare di definire quale sia la struttura interna di un rito, nonché
le sue leggi vitali, così da trovare anche le giuste strade per preservare la sua
energia vitale nel mutare dei tempi, per incrementarla e rinnovarla.
Il libro di dom Alcuin Reid si colloca in
questa linea. Percorrendo la storia del Rito romano (messa e breviario), dalle
sue origini fino alla vigilia del Concilio Vaticano II, esso cerca di stabilire
quali siano i principi del suo sviluppo liturgico, attingendo così dalla
storia, con i suoi alti e bassi, i criteri su cui ogni riforma deve basarsi.
Il libro è diviso in tre parti. La prima,
molto breve, analizza la storia della riforma del Rito romano dalle sue origini
alla fine del XIX secolo. La seconda parte è dedicata al movimento liturgico
fino al 1948. La terza - di gran lunga la più estesa - tratta della riforma
liturgica sotto Pio XII, fino alla vigilia del Concilio Vaticano II. Questa
parte si rivela molto utile, proprio perché tale fase della riforma liturgica
non viene più molto ricordata, nonostante che proprio in essa - come anche
nella storia del movimento liturgico, evidentemente - si ritrovino tutte le
questioni circa le modalità corrette per una riforma, facendo sì che sia
possibile acquisire anche dei criteri di giudizio. La decisione dell'autore di
fermarsi alla soglia del Concilio Vaticano II è molto saggia. Egli evita così
di entrare nella controversia legata all'interpretazione e alla ricezione del
Concilio, illustrando il momento storico e la struttura delle varie tendenze,
la quale risulta determinante per la questione circa i criteri della riforma.
Alla fine del suo libro, l'autore elenca
i principi per una corretta riforma: essa dovrebbe essere in egual misura
aperta allo sviluppo e alla continuità con
L'autore, poi, in accordo con il Catechismo della Chiesa cattolica,
sottolinea che "anche la suprema autorità della Chiesa non deve modificare
la liturgia arbitrariamente, ma solo in obbedienza alla fede e con rispetto
religioso per il mistero della liturgia" (CCC n. 1125; nel libro a p.
258). Come criteri ulteriori, troviamo infine la legittimità delle tradizioni
liturgiche locali e l'interesse per l'efficacia pastorale.
Vorrei sottolineare ulteriormente, dal
mio punto di vista personale, alcuni dei criteri già brevemente indicati del rinnovamento
liturgico. Comincerò con gli ultimi due criteri fondamentali. Mi sembra molto
importante che il Catechismo, nel menzionare i limiti del potere della suprema
autorità della Chiesa circa la riforma, richiami alla mente quale sia l'essenza
del primato, così come viene sottolineato dai Concili Vaticani I e II: il
papa non è un monarca assoluto la cui volontà è legge, ma piuttosto il
custode dell'autentica Tradizione e perciò il primo garante dell'obbedienza.
Non può fare ciò che vuole, e proprio per questo può opporsi a coloro che
intendono fare ciò che vogliono. La legge cui deve attenersi non è l'agire ad libitum, ma l'obbedienza alla fede. Per
cui, nei confronti della liturgia, ha il compito di un giardiniere e non di un
tecnico che costruisce macchine nuove e butta quelle vecchie. Il
"rito", e cioè la forma di celebrazione e di preghiera che matura
nella fede e nella vita della Chiesa, è forma condensata della Tradizione
vivente, nella quale la sfera del rito esprime l'insieme della sua fede e della
sua preghiera, rendendo così sperimentabile, allo stesso tempo, la comunione
tra le generazioni, la comunione con coloro che pregano prima di noi e dopo di
noi. Così il rito è come un dono fatto alla Chiesa, una forma vivente di parádosis.
È importante a tale riguardo interpretare
correttamente la "continuità sostanziale". L'autore ci mette
espressamente in guardia dalla strada sbagliata sulla quale potremmo essere
condotti da una teologia sacramentaria neoscolastica slegata dalla forma vivente
della liturgia. Partendo da essa, si potrebbe ridurre la "sostanza"
alla materia e alla forma del sacramento, e dire: il pane e il vino sono la
materia del sacramento, le parole dell'istituzione sono la sua forma; solo
queste due cose sono necessarie, tutto il resto si può anche cambiare. Su
questo punto modernisti e tradizionalisti si trovano d'accordo. Basta che ci
sia la materia e che siano pronunciate le parole dell'istituzione: tutto il
resto è "a piacere". Purtroppo molti sacerdoti oggi agiscono sulla
base di questo schema; e persino le teorie di molti liturgisti,
sfortunatamente, si muovono in questa direzione. Essi vogliono superare il rito
come qualcosa di rigido e costruiscono prodotti di loro fantasia, ritenuta
pastorale, attorno a questo nocciolo residuo, che viene così relegato nel regno
del magico oppure privato del tutto del suo significato.
Il movimento liturgico aveva cercato di
superare questo riduzionismo, prodotto di una teologia sacramentaria astratta,
e di insegnarci a considerare la liturgia come l'insieme vivente della
Tradizione fattasi forma, che non si può strappare in piccoli pezzi, ma che
deve essere visto e vissuto nella sua totalità vivente. Chi, come me, nella
fase del movimento liturgico alla vigilia del Concilio Vaticano II, è stato
colpito da questa concezione, può solo constatare con profondo dolore la
distruzione di quel che ad esso stava a cuore.
Vorrei brevemente commentare altre due
intuizioni che appaiono nel libro di dom Alcuin Reid. L'archeologismo e il
pragmatismo pastorale - quest'ultimo, peraltro, è spesso un razionalismo
pastorale - sono entrambi errati. Potrebbero essere descritti come una
coppia di gemelli profani. I liturgisti della prima generazione erano per la
maggior parte storici e, di conseguenza, inclini all'archeologismo. Volevano
dissotterrare le forme più antiche nella loro purezza originale; vedevano i
libri liturgici in uso, con i loro riti, come espressione di proliferazioni
storiche, frutto di passati fraintendimenti e ignoranza. Si cercava di ricostruire
la più antica Liturgia romana e di ripulirla da tutte le aggiunte posteriori.
Non era cosa del tutto sbagliata; ma la riforma liturgica è comunque qualcosa
di diverso da uno scavo archeologico, e non tutti gli sviluppi di qualcosa di
vivo devono seguire la logica di un criterio razionalistico/storicistico.
Questa è anche la ragione per cui - come l'autore giustamente osserva -, nella
riforma liturgica, non deve spettare agli esperti l'ultima parola. Esperti e
pastori hanno ciascuno il proprio ruolo (così come, in politica, i tecnici e
coloro che sono chiamati a decidere rappresentano due livelli diversi). Le
conoscenze degli studiosi sono importanti, ma non possono essere immediatamente
trasformate in decisioni dei pastori, i quali hanno la responsabilità di
ascoltare i fedeli nell'attuare con intelligenza assieme a loro ciò che oggi
aiuta a celebrare i sacramenti con fede oppure no. Una delle debolezze della
prima fase della riforma dopo il Concilio fu che quasi soltanto gli esperti
avevano voce in capitolo. Sarebbe stata auspicabile una maggiore autonomia da
parte dei pastori.
Poiché spesso, ovviamente, risulta
impossibile elevare la conoscenza storica al rango di nuova norma liturgica,
molto facilmente questo "archeologismo" si è legato al pragmatismo
pastorale. Si è deciso in primo luogo di eliminare tutto ciò che non era
riconosciuto come originale, e di conseguenza come "sostanziale", per
poi integrare lo "scavo archeologico" - qualora fosse sembrato ancora
insufficiente - con "il punto di vista pastorale". Ma che cos'è
"pastorale"? I giudizi intellettualistici dei professori su queste
questioni erano sovente determinati dalle loro considerazioni razionali e non
tenevano conto di ciò che realmente sostiene la vita dei fedeli. Cosicché oggi,
dopo la vasta razionalizzazione della liturgia nella prima fase della riforma,
si è di nuovo alla ricerca di forme di solennità, di atmosfere
"mistiche" e di una certa sacralità. Ma siccome esistono -
necessariamente e sempre più evidentemente - giudizi largamente divergenti su
che cosa sia pastoralmente efficace, l'aspetto "pastorale" è
divenuto il varco per l'irruzione della "creatività", la quale
dissolve l'unità della liturgia e ci mette spesso di fronte a una deplorevole
banalità. Con questo non si vuol dire che la liturgia eucaristica, come
anche la liturgia della Parola, non siano molte volte celebrate, a partire
dalla fede, in modo rispettoso e "bello" nel senso migliore della
parola. Ma dato che stiamo cercando i criteri della riforma, dobbiamo pure menzionare
i pericoli che negli ultimi decenni, purtroppo, non sono rimasti soltanto
fantasie di tradizionalisti nemici della riforma.
Vorrei soffermarmi ancora sul fatto che,
in quel compendio liturgico citato sopra, il culto è stato presentato come
"progetto di riforma", e cioè come un cantiere dove ci si dà sempre
un gran da fare. Simile, seppure un po' diverso, è il suggerimento, da parte di
alcuni liturgisti cattolici, di adattare la riforma liturgica al mutamento
antropologico della modernità e di costruirla in modo antropocentrico. Se la
liturgia appare anzitutto come il cantiere del nostro operare, allora vuol dire
che si è dimenticata la cosa essenziale:
Dio. Poiché nella liturgia non si tratta di noi, ma di Dio. La dimenticanza
di Dio è il pericolo più imminente del nostro tempo. A questa tendenza la
liturgia dovrebbe opporre la presenza di Dio. Ma che cosa accade se la
dimenticanza di Dio entra persino nella liturgia, se nella liturgia pensiamo
solo a noi stessi? In ogni riforma liturgica e in ogni celebrazione liturgica,
il primato di Dio dovrebbe sempre occupare il primissimo posto.
Con questo sono andato molto oltre il
libro di dom Alcuin. Ma credo che, comunque, sia risultato chiaro che questo
libro, con la ricchezza dei suoi spunti, ci insegna dei criteri e ci invita a
un’ulteriore riflessione. Per questo ne raccomando la lettura.