Dal libro La mia
vita: ricordi, 1927-1977, Ed. San Paolo, 1997,110-113.
Il secondo grande
evento all'inizio dei miei anni di Ratisbona fu la
pubblicazione del messale di Paolo VI, con il divieto
quasi completo del messale precedente, dopo una fase di transizione di circa
sei mesi. Il fatto che, dopo un periodo di sperimentazioni che spesso avevano
profondamente sfigurato la liturgia, si tornasse ad avere un testo liturgico
vincolante, era da salutare come qualcosa di sicuramente positivo. Ma rimasi
sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa
simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede
l'impressione che questo fosse del tutto normale. Il messale precedente era
stato realizzato da Pio V nel 1570, facendo seguito al concilio di Trento; era
quindi normale che, dopo quattrocento anni e un nuovo Concilio, un nuovo papa
pubblicasse un nuovo messale.
Ma la verità
storica è un'altra. Pio V si era limitato a far rielaborare il messale romano
allora in uso, come nel corso vivo della storia era sempre avvenuto lungo tutti
i secoli. Non diversamente da lui, anche molti dei suoi successori avevano
nuovamente rielaborato questo messale, senza mai contrapporre un messale a un
altro. Si è sempre trattato di un processo continuativo di crescita e di
purificazione, in cui, però, la continuità non veniva mai distrutta. Un messale
di Pio V che sia stato creato da lui non esiste. C'è solo la rielaborazione da
lui ordinata, come fase di un lungo processo di crescita storica. Il nuovo,
dopo il concilio di Trento, fu di altra natura: l'irruzione della riforma
protestante aveva avuto luogo soprattutto nella modalità di "riforme"
liturgiche.
Non c'erano semplicemente
una Chiesa cattolica e una Chiesa protestante poste l'una accanto all'altra; la
divisione della Chiesa ebbe luogo quasi impercettibilmente e trovò la sua
manifestazione più visibile e storicamente più incisiva nel cambiamento della
liturgia, che, a sua volta, risultò parecchio diversificata sul piano locale,
tanto che i confini tra cosa era ancora cattolico e cosa non lo
era più, spesso erano ben difficili da definire. In questa situazione di
confusione, resa possibile dalla mancanza di una normativa liturgica unitaria e
dal pluralismo liturgico ereditato dal medioevo, il Papa decise che il Missale Romanum, il testo liturgico della città di Roma, in quanto
sicuramente cattolico, doveva essere introdotto dovunque non ci si potesse
richiamare a una liturgia che risalisse ad almeno duecento anni prima. Dove
questo si verificava, si poteva mantenere la liturgia precedente, dato che il
suo carattere cattolico poteva essere considerato sicuro.
Non si può quindi
affatto parlare di un divieto riguardante i messali precedenti e fino a quel
momento regolarmente approvati. Ora, invece, la promulgazione del divieto
del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei
sacramentali dell'antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della
liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche. Come era già
avvenuto molte volte in precedenza, era del tutto ragionevole e pienamente in
linea con le disposizioni del Concilio che si arrivasse a una revisione del
messale, soprattutto in considerazione dell'introduzione delle lingue
nazionali.
Ma in quel momento
accadde qualcosa di più: si fece a pezzi l'edificio antico e se ne costruì
un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l'edificio antico e
utilizzando anche i progetti precedenti. Non c'è alcun dubbio che questo nuovo
messale comportasse in molte sue parti degli autentici miglioramenti e un reale
arricchimento, ma il fatto che esso sia stato presentato come un edificio
nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si
vietasse quest'ultimo e si facesse in qualche modo apparire la liturgia non più
come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di
competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi.
In questo modo, infatti, si è sviluppata l'impressione che la liturgia sia
"fatta", che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di
" donato ", ma che dipenda dalle nostre decisioni. Ne segue, di
conseguenza, che non si riconosca questa capacità decisionale solo agli
specialisti o a un'autorità centrale, ma che, in definitiva, ciascuna
"comunità " voglia darsi una propria liturgia.
Ma quando la
liturgia è qualcosa che ciascuno si fa da sé, allora non ci dona più quella che
è la sua vera qualità: l'incontro con il mistero, che non è un nostro prodotto,
ma la nostra origine e la sorgente della nostra vita. Per la vita della
Chiesa è drammaticamente urgente un rinnovamento della coscienza liturgica, una
riconciliazione liturgica, che torni a riconoscere l'unità della storia della
liturgia e comprenda il Vaticano II non come rottura, ma come momento evolutivo.
Sono convinto che
la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran
parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita
"etsi Deus non daretur":
come se in essa non importasse più se Dio c'è e se ci parla e ci ascolta.
Ma se nella
liturgia non appare più la comunione della fede, l'unità universale della
Chiesa e della sua storia, il mistero del Cristo vivente, dov'è che