Prefazione a K. Gamber, La réforme liturgique en question, ed. S.te Madelaine du Barroux,
1992.
Un giovane sacerdote mi diceva di
recente: “Ci vorrebbe oggi un nuovo movimento liturgico”. Era l’espressione
di una preoccupazione che, di questi giorni, solo degli spiriti volontariamente
superficiali potrebbero allontanare. Ciò che importava a questo sacerdote, non
era di conquistare nuove e audaci libertà: quali libertà non ci siamo già
arrogati? Sentiva che abbiamo bisogno di un nuovo inizio che tragga origine
dall’intimo della liturgia, come l’aveva voluto il movimento liturgico quando
si trovava all’apogeo della sua vera natura, quando non si trattava di
fabbricare testi, di inventare azioni e forme, ma di scoprire il centro
vivente, di penetrare nel tessuto propriamente detto della liturgia, affinché
l’adempimento di questa fosse il risultato della sua stessa sostanza.
La riforma liturgica, nella sua concreta
realizzazione, si è allontanata sempre più da questa origine. Il risultato non
è stata una rianimazione ma una devastazione. Da un canto, abbiamo una liturgia
degenerata in “show”, nella quale si cerca di rendere la religione
interessante con l’aiuto di idiozie alla moda e di massime morali seducenti, con dei successi momentanei nel gruppo
dei fabbricanti di liturgia, e una attitudine
all’arretramento tanto più pronunciata presso coloro che cercano nella liturgia
non lo “showmaster” spirituale, ma
l’incontro col Dio vivente davanti al quale ogni “fare” diventa insignificante,
essendo solo questo incontro capace di farci accedere alle autentiche ricchezze
dell’essere. D’altro canto, abbiamo la conservazione di forme rituali la cui
grandezza emoziona sempre, ma che, spinte all’estremo, manifestano un
isolamento ostinato e alla fine non lasciano altro che tristezza. Certo, tra i
due estremi rimangono tutti i sacerdoti e le loro parrocchie che celebrano la
nuova liturgia con rispetto e solennità, ma vengono rimessi in discussione
dalla contraddizione tra i due estremi, e la mancanza di unità interna nella
Chiesa alla fine fa comparire la loro fedeltà, a torto per molti di loro, come
una semplice verità personale di neoconservatorismo. Un nuovo impulso
spirituale è quindi necessario affinché la liturgia sia di nuovo per noi una attività della comunità della Chiesa e che venga
strappata all’arbitrio dei sacerdoti e dei loro gruppi liturgici.
Non si può “costruire” un movimento liturgico di questo genere
–non più di quanto si possa costruire un qualche cosa
di vivo-, ma si può contribuire al suo sviluppo sforzandosi di assimilare di
nuovo lo spirito della liturgia e difendendo pubblicamente quanto abbiamo fin
qui ricevuto. Questo nuovo inizio ha bisogno di “padri” che siano dei modelli,
e che non si contentino di indicare la via da seguire. Chi cerca oggi di tali
“padri” incontrerà immancabilmente la persona di Klaus Gamber,
che ci è stato purtroppo portato via troppo presto, ma che forse, e proprio nel
lasciarci, ci è divenuto autenticamente presente in tutta la forza delle
prospettive che ci ha dischiuso. Giustappunto perché lasciandoci sfugge alla
diatriba delle parti, potrebbe in questo momento di sconforto, divenire il
“padre” di un nuovo inizio. Gamber ha portato con
tutto il suo cuore la speranza dell’antico movimento liturgico. Senza dubbio,
venendo da una scuola straniera, è rimasto un “outsider” sulla scena tedesca,
dove non lo si voleva accettare sul serio; ancora di recente una tesi ha
incontrato ingenti difficoltà perché la giovane ricercatrice aveva osato citare
Gamber troppo diffusamente e con troppa benevolenza.
Ma forse questo essere messo da parte è stato provvidenziale perché ha
costretto Gamber a seguire la sua propria via e gli
ha evitato il peso del conformismo.
E’ difficile esprimere in poche parole
ciò che, nella disputa tra i liturgisti, è veramente essenziale e ciò che non lo è. Forse l’indicazione seguente potrò essere utile. J.A. Jungmann, uno dei veri
grandi liturgisti del nostro secolo, aveva definito a suo tempo la liturgia, tale
quale la si ascoltava in Occidente rappresentandola soprattutto attraverso la
ricerca storica, come una “liturgia frutto di uno sviluppo”; probabilmente
anche per contrasto con la nozione orientale che non vede nella liturgia il
divenire e la crescita storici, ma solamente il riflesso della liturgia eterna,
la cui luce, attraverso lo svolgimento sacro, illumina il nostro tempo mutevole
con la propria bellezza e grandezza immutabili. Le due concezioni sono
legittime e in definitiva non sono inconciliabili. Ciò che è avvenuto dopo
il Concilio significa tutt’altro: al posto di una liturgia frutto di uno
sviluppo continuo, è stata messa una liturgia fabbricata. Si è usciti dal
processo vivente di crescita e di divenire per entrare nella fabbricazione. Non
si è più voluto proseguire il divenire e la maturazione organici del vivente
attraverso i secoli, e li si è rimpiazzati – come
fosse una produzione tecnica – con una fabbricazione, prodotto banale del
momento. Gamber, con la vigilanza di un autentico
profeta e con il coraggio di un autentico testimone, si è opposto a questa
falsificazione e ci ha insegnato instancabilmente la viva pienezza di una
liturgia autentica, grazie alla sua conoscenza incredibilmente ricca delle
fonti. Un uomo che conosceva e amava la storia, ci ha mostrato le molteplici
forme del divenire e del cammino della liturgia; un uomo che vedeva la storia
dall’interno, ha visto in questo sviluppo il frutto dello sviluppo stesso e il
riflesso intangibile della liturgia eterna, la quale non è oggetto del nostro
fare ma che può continuare meravigliosamente a maturare e fiorire, se ci uniamo
intimamente al suo mistero. La morte di questo uomo e sacerdote eminente
dovrebbe stimolarci; la sua opera potrebbe aiutarci a prendere nuovo slancio.